Un accordo segna un punto di svolta controverso nell’industria discografica. Hallwood Media, l’etichetta indipendente fondata da Neil Jacobson, ex presidente di Geffen, ha ingaggiato Imoliver, il produttore più ascoltato su Suno, la piattaforma di creazione musicale basata sull’AI. E c’è un dettaglio cruciale: Imoliver non è un algoritmo bensì un essere umano che sfrutta l’intelligenza artificiale per plasmare i suoi suoni. Insomma, uno che… prompta bene. Hallwood lo definisce un “designer musicale”, capace di fondere artigianalità e innovazione, e ha in programma di lanciare il suo album il 24 ottobre anticipato dal singolo “Stone” l’8 agosto. Jacobson non ha dubbi: “Imoliver rappresenta il futuro della musica, un ponte tra tradizione e avanguardia”.
Eppure, dietro l’entusiasmo si nasconde un dilemma etico e legale. Se da un lato l’industria abbraccia queste nuove tecnologie, dall’altro le major – Universal, Warner e Sony – stanno trascinando in tribunale Suno e Udio per presunta violazione del copyright. Un paradosso evidente, considerando che la stessa Universal collabora con SoundLabs per integrare l’AI nel lavoro dei suoi artisti. Imoliver, dal canto suo, difende la sua scelta: “Non si tratta di rimpiazzare gli artisti, ma di esplorare nuove possibilità”. Ma fino a che punto queste possibilità rischiano di calpestare i diritti di chi ha creato prima? Mikey Shulman, CEO di Suno, esulta: “Questo accordo dimostra che la musica del futuro sarà più inclusiva e senza confini”.
Eppure, molti musicisti e produttori guardano con scetticismo a questa rivoluzione. Se l’AI può ampliare gli orizzonti creativi, chi garantisce che non diventi uno strumento di sfruttamento? Le etichette sembrano navigare a vista, pronte a cavalcare l’onda dell’innovazione mentre cercano di proteggere i loro cataloghi. Intanto, il caso Imoliver diventa il simbolo di un’industria in bilico tra progresso e conservazione, tra opportunità e rischi. La domanda rimane: l’AI è davvero un alleato degli artisti, o solo un nuovo padrone?