Red Bull tira i remi in barca. Fine del gioco per Red Bull Records, che chiuderà definitivamente entro il 2025 dopo diciotto anni di attività. Ma non è un fulmine a ciel sereno: è solo l’ultimo capitolo di un ripiegamento sistematico che ha già spazzato via la Red Bull Music Academy, Red Bull Radio, una rete globale di studi di registrazione e pure diverse avventure nel gaming. Tutto smantellato tra il 2019 e oggi. E qui viene da chiedersi: non è che il problema stava proprio all’origine?
Perché Red Bull, va detto chiaro, non è mai stata un’etichetta discografica. È un’azienda di bevande energetiche che fattura oltre 11 miliardi di dollari vendendo lattine. La musica, gli sport estremi, la Formula 1, gli esports: tutto questo è marketing, non core business. Ed è proprio qui che casca l’asino. Nel gergo del marketing si chiama “estensione di linea”: prendi un marchio forte in un settore e lo allunghi su prodotti o servizi completamente diversi. Funziona? A volte. Spesso no.
Red Bull ci ha provato in grande stile. Nel 2007 ha lanciato la sua etichetta in partnership con Sony, ha scoperto e promosso artisti come AWOLNATION, Beartooth e Blxst, ha costruito un ecosistema che dal 1998 con la Music Academy abbracciava oltre sessanta paesi, festival, workshop, piattaforme per scene underground che le major tradizionali ignoravano bellamente. Tutto bellissimo sulla carta. Tutto costosissimo nella realtà.
Perché quando sei Red Bull, con un budget marketing multimiliardario concentrato su Formula 1 e altri sport ad alto impatto visivo, a un certo punto ti guardi allo specchio e ti fai due conti. E quei conti dicono che mantenere etichette, accademie, radio e studi di registrazione globali è un investimento lento, frammentato, difficile da misurare in termini di ritorno. Mentre una gara di Formula 1 ti mette il logo davanti a milioni di occhi in due ore, un’etichetta discografica lavora su tempi lunghi, pubblici di nicchia, risultati incerti.
Il problema dell’estensione di linea è proprio questo: quando il vento cambia, quando la matematica del marketing si fa meno generosa, le attività periferiche saltano per prime. Red Bull non ha mai avuto nel DNA la musica, non è mai stata davvero un’etichetta con una missione culturale autonoma. Era un veicolo di brand. E quando un veicolo costa troppo rispetto a quello che porta a casa, lo mandi in rottamazione.
Certo, Red Bull si giustifica parlando di “spostamento verso iniziative locali” e “programmi più selettivi”. Traduzione: meno strutture fisse, più sponsorizzazioni spot, più presenza sui social e sulle piattaforme creator dove l’attivazione costa meno e si controlla meglio. Il mondo è cambiato, è vero. Ma è cambiato anche perché aziende come Red Bull hanno costruito castelli culturali senza fondamenta solide, attraendo talenti e scene con la promessa di risorse infinite, per poi ritirare tutto quando i numeri non quadravano più.
Per gli artisti sotto contratto con Red Bull Records resta il grande interrogativo: che ne sarà di loro? Verranno liberati? Passeranno ad altri partner? Resteranno parcheggiati in qualche limbo contrattuale? L’articolo di Digital Music News solleva la questione ma non ha risposte. E questo la dice lunga su come è stata gestita l’operazione: in silenzio, senza troppi comunicati, quasi di soppiatto.
Se c’è una lezione da tirare fuori da questa storia è che l’estensione di linea nel settore culturale è una scommessa rischiosa. Puoi anche avere i soldi di Red Bull, ma se la musica non è il tuo mestiere, se non ci credi fino in fondo, se la tratti come un accessorio del brand anziché come un’industria a sé stante con le sue regole, prima o poi il castello crolla. E a pagare il conto non è la multinazionale da 11 miliardi, ma gli artisti, i tecnici, i professionisti che ci avevano creduto davvero.
Red Bull ha voluto fare l’etichetta discografica per diciotto anni. Adesso ha deciso che non gli conviene più. Fine della storia. Ma forse, la domanda giusta è: gli è mai convenuto davvero? O era solo un modo costoso per sembrare cool?